Contorni del soprano drammatico verdiano...
Inviato: 06/04/2012, 11:11
Le celebrazioni per il primo centenario della morte di Giuseppe Verdi hanno offerto l'occasione per una attenta lettura filologica della sua produzione e per approfondire la funzione delle fonti letterarie europee sull'itinerario artistico del grande compositore.
Se il primo compito è di stretta pertinenza del musicista, il secondo coinvolge anche il letterato.
Come è noto, il giovane compositore esordì attingendo dalla grande storia, dal mito e dalla Bibbia (Oberto, Attila, Nabuccodonosor, I Lombardi alla prima crociata); successivamente si rivolse ai classici del romanticismo europeo (basti pensare a Dumas, Hugo, Byron) o ad autori di universale grandezza come Schiller e Shakespeare. Questi ultimi, in particolare, prediletti da Verdi, furono non a caso le fonti della maggior parte delle sue opere più note. Certamente tale predilezione era favorita dalla cultura del tempo: idealismo etico e mondo delle passioni, rappresentati l'uno da Schiller, l'altro da Shakespeare, costituirono un topos ricorrente nella critica romantica. Tuttavia Verdi non era artista da lasciarsi imporre la materia dei propri drammi semplicemente dalla moda imperante e dal gusto del tempo.
Se tanto di frequente (per un totale di sette opere, quattro dall'autore tedesco e tre dall'inglese) fu attratto dai due drammaturghi, non è insensato pensare che dovesse avvertire in essi caratteri congeniali alla propria natura.
Tuttavia la frequenza con cui nell'epistolario si rivolge ai due autori è, caso molto strano, inversamente proporzionale al numero delle opere rispettivamente suggerite. Infatti la sintonia con Schiller, pur fondata sull'ispirazione di ben noti melodrammi (Giovanna d'Arco, Luisa Miller, I masnadieri, Don Carlo) ma legata a valori etici - quali la ragion di stato, il senso dell'onore e del dovere - risulta meno esplicita rispetto a quella dirompente stabilita con Shakespeare fin dalla giovinezza e coltivata per tutta la vita.
Specchio delle passioni e di tutte le umane contraddizioni, il drammaturgo di Stratford diventa, in realtà, il simbolo dell'età romantica e, come tale, la dominante della dialettica musicale verdiana.
Non a caso il melodramma, nato fra il XVI e il XVII secolo con Monteverdi e Metastasio, raggiunse il suo massimo splendore proprio nell'Ottocento in coincidenza con la scoperta, la rivalutazione e la diffusione del teatro shakespeariano. Nella cultura asistematica del giovane Verdi, affidato alle cure prima del parroco di Busseto, poi a più esperti maestri milanesi, accanto alla musica ebbe un posto di rilievo la letteratura europea. Tale esterofilia, costante fonte d'ispirazione fin dagli esordi con l’Oberto, fu giudicata poco adatta a un patriota, secondo il rilievo mosso da Giusti al giovane compositore. Come se fosse possibile ingabbiare la grande arte entro confini nazionali o schemi ideologici!
Fortunatamente Verdi non diede ascolto a tali miopi giudizi come dimostra la sua biblioteca ricca non solo di spartiti (da Palestrina fino ai contemporanei Berlioz, Wagner, Brahms) ma anche di opere classiche e moderne, italiane e straniere: dai mistici trecenteschi alle Memorie di Casanova, alla Filotea di San Francesco di Sales, al Piacere di D'Annunzio, da Platone a Pascal, a Schopenauer, da Balzac a Byron, a Schlegel, a Schiller, a Zola; ma anche i grandi tragici greci insieme a molte edizioni di Shakespeare in lingua originale e in traduzione. Altro che Verdi rozzo e incolto o, peggio, popolaresco e bandistico!
La verità dell'invenzione drammatica di Verdi non stava nell'imitazione «veristica» della realtà, come fu per Puccini, né corrispondeva alla verità astratta del mito, come avvenne per Wagner. In lui il «vero» s'incarnava nel groviglio delle passioni umane tradotte sulla scena nel linguaggio universale della musica. In questo difficile gioco, tipico del teatro, fra realtà e finzione, essere e apparire, va ricercata non solo la unicità del maestro di Busseto, ma anche la ragione del profondo legame con Shakespeare. «Inventare il Vero» è, appunto, la direttrice fondamentale della ricerca verdiana nel segno del drammaturgo di Stratford: il suo referente per tutta la vita. A lui si rivolge più volte, leggiamo nell'epistolario, per dare credibilità al proprio principle estetico con la confidenza e l'affetto di un figlio verso il padre: «Copiare il vero può essere buona cosa, ma Inventare il vero è meglio, molto meglio. Pare che vi sia contraddizione in queste tre parole: inventare il vero. Domandatelo al Papà. Può darsi che Egli, il Papà si sia trovato con qualche Falstaf, ma difficilmente avrà trovato uno scellerato così scellerato come Jago, e mai e poi mai degli angioli come Cordelia, Imogene, Desdemona [...] eppure sono tanto veri» [p. 425]), la venerazione di un discepolo verso il maestro («Ah, Shakespeare! [...] il gran maestro del cuore umano! Ma io non imparerò mai!» [SANTI 2001, p. 16]), la sensibilità del critico in largo anticipo sui tempi («Ah, il progresso; la scienza, il verismo! Verista fin che volete [...] Shakespeare era verista ma non lo sapeva. Verista d'ispirazione, noi siano veristi per progetto, per calcolo» [p. 257]).
Posto al di sopra dei pur amatissimi tragici greci, fin dalla giovinezza ne frequentò i testi con una passione che presto divenne desiderio di riappropriazione e ricreazione. «Sta nelle mie idee di musicare La tempesta — scriveva in un'altra lettera - come sta pure nella mie idee di fare lo stesso dei principali drammi del gran tragico» [BOITANl 2000, p. 5].
È noto che Shakespeare signifcò per Verdi la scoperta di una nuova concezione drammaturgica incentrata sulla rappresentazione della condizione umana e delle sue problematiche; la conoscenza di un linguaggio teatrale libero da ogni regola accademica, la mescolanza dei generi, il valore della «parola scenica», lo scardinamento della forma «chiusa». In altri termini, il tragico inglese fu l'occasione, il correlativo oggettivo di tutta la vicenda artistica del maestro italiano ben al di là delle tre riscritture - Macbeth, Otello, Falstaff- e dei progetti per un Amleto, una Tempesta e un Re Lear. Quest'ultimo - il più verdiano dei drammi di Shakespeare - sarebbe stato musicato, leggiamo nell'epistolario, «in una maniera del tutto nuova, vasta, senza riguardo a convenienze di sorta» [p. 189]. II musicista italiano, in verità, non si scostava dalla moda del tempo (basti pensare a Rossini, Mercadante, Vanwesteraut) ma, a differenza dei suoi sodali, cercò di essere se stesso creando testi del tutto nuovi. Non a caso quelle di Verdi sono quasi le uniche riscritture shakespeariane di un interminabile elenco ad aver superato la prova del tempo.
Contro chi lo accusava, dopo il Macbeth di Parigi (1865), di non conoscere il drammaturgo inglese, si difese protestando con veemenza: «Può darsi che io non abbia reso bene il Macbeth, ma che io non conosco, che io non capisco e non sento Shakespeare (sic!) no per Dio, no. E’ un poeta di mia predilezione, che ho avuto fra le mani dalla mia prima gioventù e che leggo e rileggo continuamente» [p. 166].
A questo punto è chiaro che l'influenza dell'autore inglese va ben oltre le opere messe realmente in musica o lasciate allo stato di progetto. Possiamo intravedere, per esempio, l'insegnamento delle tragedie romane dietro Aida; il dolente, tenero amore patemo di Lear per Cordelia rivive in Rigoletto, delimita dallo stesso Verdi «il più gran dramma dei tempi moderni, creazione degna di Shakespeare» [p. 206]; l'assenza di un centro unico di azione drammatica in La forza del destino s'ispira al policentrico Troilus and Cressida, mentre Omar - un ambiguo personaggio della suddetta opera italiana - è a mezza strada fra Puck (Midsummer Night's Dream) e Ariel (The Tempest). Per non parlare di tutta la drammaturgia del «Cigno di Avon», incentrata sullo studio antieroico dell'uomo, riconoscibile nei vari Rigoletti, Violette, Azucene, ossia nei «perdenti» quanto mitici personaggi del musicista italiano.
Verdi sa raccontarci mondi riconoscibili, che ci appartengono, senza ispirarsi a saghe nordiche come fece Wagner, ma attingendo ovunque in Europa, in particolare al drammaturgo di Stratford, pur restando sempre italianissimo. E’ una prerogativa della vera arte riuscire a esprimere passioni universali e far leva su un patrimonio umano collettivo di sentimenti ed emozioni. Verdi è come Shakespeare che resta il più inglese degli scrittori, pur guardando molto al di là dei propri confini nazionali per mettere in scena tutto il mondo fino allora conosciuto. II musicista italiano attinse i suoi caratteri in Europa, ma il debito è reciproco, perché molto gli deve la cultura europea, non solo musicale. Se così non fosse, annota Principe [2000, p. 35], non ascolteremmo in Simon Boccanegra premonizioni di Saint-Saens e di Schumann, rimandi di Čajkovskij nel Ballo in maschera, richiami inequivocabili di Mahler in Otello, Traviata e Aida rispettivamente nella Terza Sinfonia, nella Quinta, in Das Klagende Lied; inoltre Verdi suscitò le simpatie di Nietzsche che riteneva Otello superiore all'opera di Wagner [NIETZSCHE 1977, p. 432], la venerazione di Joyce (con il figlio Giorgio, si dilettava a cantare e suonare le più note arie verdiane [ELLMANN 1982, p. 460]); E.M. Forster s'ispirò a Otello per il libretto di Billy Budd, scritto per l'omonima opera di Britten. All'estetica verdiana si richiama il titolo Shakespeare. L'invenzione dell'uomo, il recente saggio di Harold Bloom.
II rapporto fra Verdi e Shakespeare, pertanto, non fu né di sudditanza né di pedissequa imitazione, ma una sorta di affinità elettiva che consentì al compositore di sfidare il mondo musicale del suo tempo per riportare il melodramma italiano a livelli europei fino a orientarne il corso verso la contemporaneità (Stravinskij, Nono, Berio).
Questo è un dramma che non ha nulla di comune con gli altri.2
Se le composizioni del primo Verdi dall'Oberto al Nabucco non si allontanano dal gusto operistico del tempo (spettacolarità, gioco delle masse, uso delle arie, dei recitativi e del finale «chiuso») il punto di rottura è proprio il Macabeth rappresentato alla Pergola di Firenze nel 1847 e soltanto due anni più tardi alla Scala di Milano. Una edizione «riformata» va in scena nel prestigioso Théâtre Lyrique di Parigi nel 1865.
La sua decima fatica («questo Macbeth che io amo a preferenza delle altre mie opere», recita la dedica al «padre e benefattore e amico» Antonio Barezzi [BENTIVOGLIO 2000, p. 43]), nasce sotto il segno dell'eccezionale. Nell'opera di Shakespeare (nota nella traduzione italiana di Carlo Rusconi del 1838), Verdi riconosce una «delle più grandi creazioni umane» [BENTIVOGLIO 2000, p. 43] e, quindi, sollecita Francesco Maria Piave «di fare almeno una cosa fuori dal comune» [BENTIVOGLIO 2000, p. 43]. L'opera indicherà - assicura il librettista - nuove tendenze alla nostra musica e aprira nuove strade ai maestri presenti ed avvenire» [BENTIVOGLIO 2000, p. 43]. Del resto già nel primo accenno a Macbeth (in una lettera all'impresario fiorentino Lanari, del 17 maggio 1846), il maestro annota a proposito del soggetto: «Non è né politico, né religioso: è fantastico» [BENTIVOGLIO 2000, p. 43]. Per tradurre tale grandezza, Verdi fa del realismo il punto della sua drammaturgia musicale con una carica innovativa capace di audacie mai più superate.
Da un lato riesce così a costruire, in contrasto con il gusto del tempo, un perfetto equilibrio fra parola e musica, la ben nota «parola scenica», dall'altro, dando spazio primario al «cattivo», fa propria la nouvelle vogue romantica.
La novità verdiana corrisponde a quella corrente che nella seconda metà dell'Ottocento si andava delineando come , degli emarginati dei diseredati dal punto di vista morale e fisico: è il naturalismo di Zola, il verismo di Verga, o il realismo di Balzac.
Per il Macbeth in ottemperanza a tale nuovo dettato, Verdi scrisse [p. 162] che voleva una Lady «brutta e cattiva», che non «cantasse» in senso tradizionale, ma avesse «una voce aspra, soffocata, cupa», che «avesse del diabolico», richiesta, quest'ultima, impensabile pochi anni prima ai tempi di Rossini o anche di Bellini. Altrettanto vale per il protagonista maschile voluto soprattutto per l'intelligenza interpretativa, per la straordinaria efficacia del canto declamato nonché per la figura poco attraente.
4) l’assenza dell'intreccio amoroso va a favore del confronto straziato, ma lucidissimo, del protagonista con la propria coscienza dal momento dell'esaltazione illusoria a quello della certezza tragica della disfatta, annunziato dalle streghe. Incarnazione del Male e, quindi, centro nodale del dramma, esse rappresentano «un personaggio». E’ superfluo ricordare che Verdi, con quest'ultimo punto, facendo propria la lezione di Schlegel, si oppose alla maggioranza dei letterati italiani del suo tempo (Niccolini, Maffei, Piave, Giusti) che davano del testo shakespeariano un'interpretazione parziale e mistificatrice, gravemente inficiata da pregiudizi classicistici (assenza delle unità aristoteliche) e religiose (dramma squisitamente morale e della fatalità, incarnate dalle streghe addomesticate, però, in una visione mitologica, come le Parche o le Nome, nonché nella connotazione, ancor piu asettica del «fantastico», del «magico», del «meraviglioso»). Di qui l'attenzione maniacale per ogni aspetto del dramma, dalla recitazione, ai costumi, alla gestualità, perché tutto doveva concorrere alla valorizzazione della «parola scenica», determinata dalla essenzialità. È quanto apprendiamo dalle numerose lettere inviate al librettista Piave con ossessiva insistenza: «Ti raccomando i versi [...] quanto più saranno brevi tanto più troverai effetto [...] per concludere [...] non trascurarmi questo Macbeth [...] brevità e sublimità»; e ancora: «Abbia sempre in mente di dir poche parole [...] poche parole [...] ti ripeto poche parole [...] stile conciso! Hai capito?», o al primo interprete di Macbeth, Felice Varesi: «Io non cesserò mai di raccomandarti di studiare bene la posizione e le parole: la musica viene da sé. Insomma, ho piacere che servi meglio il poeta del maestro» [p. 157].
L'estetica del brutto, dell'emarginato, iniziata con Macbeth, continua con Rigoletto (Venezia, La Fenice 1851), Il trovatore (Roma, Apollo 1853) e La traviata (Venezia, La Fenice 1853), opere che costituiscono la cosidetta «trilogia popolare» con le quali Verdi concluse «gli anni di galera», il periodo più duro di ricerca e di formazione artistica. Nella trilogia, infatti, i veri protagonisti non sono il Duca, Eleonora o Alfredo, vale a dire i personaggi di rango, bensì Rigoletto, Azucena e Violetta, ossia i personaggi inferiori e messi al bando da un lato per il loro ambiguo passato, dall'altro perché, tentando di riscattarsi con una passione vera, si oppongono all'ordine gerarchico.
...
BENTIVOGLIO, L. (2000): Il mio Verdi, Roma, Socrates.