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...In Teatro

MessaggioInviato: 12/12/2011, 19:23
da Tuttiallopera









L’ingresso ufficiale nel mondo della prosa viene fatto risalire al dramma in versi El Buldaror de Sivilla y Convidado de pietra di Gabriel Téllez in arte(1584? – 1648) che, rappresentato per la prima volta a Napoli nel 1625 e pubblicato nel 1627, riscuote un immediato successo in tutto il continente europeo. Si tratta di una storia intricatissima di seduzioni ed inganni orchestrati da Don Giovanni Tenorio, campione di cinismo e di egoismo, nel quale l’intrigo amoroso si fonda con l’amore per la “burla”, non solo a danno delle donne, ma della società in cui vive: “Siviglia mi chiama ad alata voce il Beffatore ed in realtà il mio più grande piacere è quello di beffare una donna lasciandola senza onore”. Più del piacere erotico Don Giovanni cerca la gioia di vivere e la beffa attuata attraverso il travestimento e la sostituzione di persona, il gusto di annullare se stesso per diventare un altro, irridendo le leggi del mondo e della morale. Nella sua sfrenata ricerca del piacere, egli vuole godere senza scrupoli e ritegni morali tutte le donne, ma non è un mostro di crudeltà e di abominio, perché la sua foga sessuale e il suo baldanzoso coraggio non gli fanno pensare alla morte, ma gli fanno credere che ci sarà sempre tempo per chiedere perdono a Dio. Don Giovanni calpesta i diritti delle persone, ma s’inchina sempre al sentimento dell’onore e rimane fedele all’imperativo del coraggio che non tradisce nemmeno quando dinanzi a lui si spalancano le porte dell’oltretomba e compare il fantasma del Convitato di pietra. Egli riesce ad essere contemporaneamente sia il cavaliere nobile e coraggioso, sia l’ateista fulminato e il dissoluto punito che viene trascinato nelle fiamme infernali, avendo rifiutato il pentimento e la conversione. Don Giovanni muore tra le fiamme e “con questo castigo dall’alto…tutto torna nell’ordine, vergine e puro come era prima dell’accaduto; la morale giuridica chiesastica interviene, sostituendo il processo doloroso e tragico della coscienza morale” (Benedetto Croce, Letture di poeti, 1944).

Nel dramma di Tirso de Molina ricorrono tutti gli elementi delle sacre rappresentazioni, dove la vita reale e laica s’intreccia con gli intenti edificatori, per questo “quell’unione di sfrenata libidine e di prodigo coraggio, di ingannatore e violatore di donne e di irreprensibile cavaliere cinge il don Juan di Tirso di un suo fascino ed eccita il desiderio di vedere più a fondo in un’anima e in una vita siffatta che par quasi chiudere un mistero: un mistero che non era già tale per spagnolo e frate Tirso, il quale sentiva naturale, legittima e doverosa quell’unione, e forse neppure al diavolo avrebbe fatto commettere azioni anticavalleresche e vili” (Benedetto Croce, op. cit.). Nel dramma è possibile individuare sia la condanna che l’ammirazione e in questa “ambiguità” e in questo suo ambivalente contegno di Don Giovanni non si avverte nessuna contraddizione, per cui col passare del tempo il protagonista della “sacra rappresentazione” di Tirso de Molina finisce per diventare diviene il multiforme eroe di numerosi drammi e poemi del tutto profani.

Del personaggio di Don Giovanni s’impadroniscono per primi i comici italiani della Commedia dell’arte, come testimoniano alcuni canovacci arrivati fino a noi come L’Ateista fulminato, ambientato nel regno di Sardegna; Il convitato di pietra, la cui storia si svolge nel regno di Napoli ed è attribuito all’attore ; il Convitato di pietra. Le festin de Pierre, che viene rappresentato a Parigi nel 1658 dall’attore e capocomico Domenico Biancolelli (1636-1688); il Festin de Pierre ou Le Fils criminal (1665) di Nicola Drouin detto Dorimond (1628-1673); la tragi-commedia Nouveau festin de Pierre ou l’Athéiste foudroué (1670) dell’attore Claude La Rose detto Rosimond.

Recentemente è venuto alla luce il testo completo de Il convitato di pietra (1690), opera tragica di (1651-1704), di cui si conosceva soltanto il canovaccio. Perrucci è un poeta e autore teatrale napoletano finora noto per la Cantata dei pastori (1698) e per il trattato di tecnica teatrale intitolato Dell’arte rappresentativa premeditata e all’improvviso (1699). Egli ambienta a Napoli questo suo copione, per cui lo Zanni Coviello è il servitore di Don Giovanni e Pulcinella è il domestico di Don Ottavio. Mentre i personaggi nobili si esprimono in italiano, il Dottore parla in bolognese sua figlia Pimpinella, Rosetta, Coviello e Pulcinella parlano in napoletano. Sempre in ambiente napoletano Francesco Cerlone pubblica nel 1789 Il Nuovo Convitato di Pietra, che presenta alcune varianti rispetto al testo di Perrucci; nel 1799 compare a firma di Michele Abri Il nuovo Convitato di pietra, ovvero Don Giovanni Tenorio con Pulcinella, servo di un padrone impertinente e spaventato da una statua che parla e cammina, che appare anch’esso molto simile al testo di Perrucci. Infine, in tempi più recenti, viene pubblicato nel 1909 la farsa in un atto di autore ignoto intitolata Pulcinella duellista notturno, in cui si ritrova una scialba figura di Don Giovanni, ridotto a comprimario e costretto a scambiarsi abiti e ruolo con il suo servo, un Don Giovanni travestito da Pulcinella che si presenta al pubblico al fianco del suo servo diventato padrone.

Uno dei più fedeli spettatori dei comici della Commedia dell’Arte, che si esibivano a Parigi, è stato sicuramente il grande commediografo (1622-1673), che a sua volta scrive e mette in scena nel 1665 la commedia Dom Juan ou le Festin de pierre, che è unanimemente giudicata il suo capolavoro assoluto. Quest’opera è dominata dalla figura dell’ateista Don Giovanni, filosofo e libertino, corrotto e corruttore che discute della società, della morale e dei suoi rapporti con Dio con il suo antagonista, il servitore Sganarello. In Molière la figura di Don Giovanni acquista un particolare spessore, assumendo caratteri nuovi e spesso diabolici: l’empietà di trasforma in una consapevole dottrina, perché Don Giovanni (al pari di Tartufo) esalta l’ipocrisia e la falsa devozione usate come mezzi per raggiungere i propri scopi, in questo modo egli diventa un eroe del calcolo e dell’inganno, che conduce una lotta spietata contro la morale, la virtù, l’onore e la religione della società in cui vive, avendo come contraltare il suo vile servitore, a cui è affidata la difesa della fede in Dio e della morale tradizionale. Esemplare è l’incontro tra Don Giovanni e il Povero, durante il quale egli offre all’eremita un luigi d’oro purché commetta un peccato qualsiasi; di fronte al rifiuto dell’uomo, Don Giovanni gli dona ugualmente quella moneta “pour l’amour de l’Humanité”, anticipando per certi versi l’uomo “nuovo” che si affermerà con il Secolo dei Lumi. È vero che, nel corso della commedia, ricade sul protagonista tutta una serie di condanne, di rimproveri e di invettive, ma egli risponde sempre con l’inganno (la finta conversione) e con il sarcasmo (il monologo finale sull’ipocrisia), assumendo la statura di un libero pensatore. Questa caratteristica del personaggio non solo eserciterà una forte influenza sul Don Giovanni di Mozart, ma aprirà la strada alla letteratura “libertina” del Settecento francese a cominciare dalle opere di Sade per finire al capolavoro di Choderlot de Laclos Les liaisons dangereuses, dove il seduttore indossa le vesti maschili del Visconte di Valmont, ma anche gli abiti femminili di una insaziabile seduttrice come della Marchesa de Marteuil.

In Inghilterra (1642-1692), un drammaturgo seguace di Ben Jonson, pubblica nel 1676 un dramma intitolato The Libertine, dove il seduttore è rappresentato come un criminale seriale che annienta senza pietà le sue amanti, che schernisce il loro ambiente sociale e i familiari quando cercano di vendicarle. Don Giovanni compie stupri e profanazioni blasfeme perché si considera un happy libertine che non agisce perché è mosso da una cattiveria spontanea e istintiva, ma opera in base a un sadismo premeditato, sostenuto da una vaga logica filosofica e da un delirio omicida. L’opera riscuote un grande successo per tutto il periodo della Restauration tragedy, quando vi è la tendenza a portare sulle scene le dissolutezze umane, per cui la figura di Don Giovanni non serve solo come modello di peccatore da non imitare, ma anche come un mito intellettuale.
Nella Francia del Seicento gli intenti moralistici della monarchia spingono Thomas Corneille (1625-1709), fratello minore di Pierre, a scrivere nel 1677 una versione emendata dell’opera di Molière, che rimane nel repertorio della Comédie Français fino alla metà dell’Ottocento. Agli inizi del Settecento, la figura di Don Giovanni si trasforma in quella del peccatore pentito come avviene nel dramma No hay deuda que no se pague y Convitato de pietra (1714) di Antonio de Zamora, dove il grande seduttore muore di morte naturale dopo aver chiesto perdono per aver condotto una vita dissoluta, conquistando così la salvezza dell’anima una visione cristiana dell’esistenza. Sempre secondo questa chiave interpretativa, intorno al 1780 compare un dramma di un anonimo portoghese intitolato Comedia nova ititulada o Convidado de petra ou D. Joao Tonorio, o dissoluto, nella quale Don Giovanni diventa un eroe lacrimoso che, di fronte alle prediche di Donna Elvira, si ravvede e fa penitenza sopraffatto dai sensi di colpa, per cui nel finale si verifica la riunione sentimentale dei due coniugi nel segno del vero amore, introducendo un “lieto fine” che precorre quello delle opere teatrali borghesi del XIX secolo.

In Italia lo stesso (1707-1792) entra a far parte di questo filone moralistico e scrive nel 1736 la commedia in versi sciolti, suddivisa in cinque atti, intitolata Don Giovanni Tenorio o il Dissoluto. Nella Prefazione il commediografo veneziano fa riferimento al Convitato di pietra, che egli definisce “commedia fortunatissima” anche se erroneamente l’attribuisce a Pedro Calderon de La Barca e non a Tirso de Molina, il cui testo aveva avuto nel nostro paese un grande successo grazie alle traduzioni del fiorentino Andrea Cicognini e del napoletano Onofrio Gilberto. Goldoni, dopo averne riassunto la trama, non sa spiegarsi il favore del pubblico per “codesta sciocca Commedia” e quindi passa ad esaminare il Don Giovanni di Molière, condannando “l’empietà eccedente di Don Giovanni, espressa con parole e massime che non possano fare a meno di non scandalizzare anche gli uomini più scorretti”. Il nostro grande commediografo, legato alla sua morale borghese, è assolutamente incapace di entrare nella psicologia di un personaggio come Don Giovanni ed infatti scrive forse la sua commedia più brutta, rappresentando un Don Giovanni evanescente, privo di qualsiasi perversione erotica, senza risvolti metafisici, ma solamente verboso e moralistico. L’autore dichiara apertamente le sue finalità edificanti, affermando che “o non doveasi porre in iscena un vizioso di tal carattere, o si dovea veder punito, correggendo lo scandalo degli scellerati costumi suoi con un gastigo visibile e pronto, onde gli ascoltatori, che in qualche parte potevano compiacersi della mala vita di Don Giovanni, partissero poi atterriti dal suo miserabile fine, temendo sempre più la giustizia d’iddio, che tollera fino ad un certo segno le colpe, ma ha pronti i fulmini per vendicarle. Io non avrei scelto per me medesimo così empio Protagonista, se altri non lo avessero fatto prima di me, ed ho anzi preteso di compiacere l’universale invaso dall’allettamento di questa favola, moderandone l’empietà e il mal costume, e di quelle infinite scioccherie spogliandola, che vergogna recavano alle nostre Scene”. Inoltre egli dice di aver intitolato la commedia Il Dissoluto proprio per mettere in massima evidenza la natura di incallito peccatore di questo personaggio. Per dare maggiore forza al suo assunto catechistico, Goldoni sopprime il personaggio del Convitato di pietra, toglie la scena dell’empio che precipita nelle fiamme dell’inferno proprio per eliminare ogni componente inverosimile e fantastica e conferire un maggiore spessore realistico al suo messaggio. La morte di Don Giovanni avviene pertanto fuori della scena ed è annunciata dal pastore Carino (“Cotante ingiurie/Contro i Dei pronunziò, che un fulmine venne;/Lo colpì, s’aprì il suolo, e più non vidi”), per cui Don Alfonso, primo ministro del Re di Castiglia, può concludere la commedia con queste parole: “Andianne, amici, e dell’indegno estinto/il terribile esempio ormai c’insegni,/Che l’uom muore qual visse, e il giusto cielo/Gli empi punisce, e i dissoluti aborre”. Infine Goldoni afferma di aver scritto questa commedia in versi, perché “i sentimenti poco onesti, e le massime temerarie, le pericolose proposizioni, in prosa feriscono più facilmente l’orecchio degli uditori”, mentre “in verso le cose si dicono con un poco più di moderazione, si adoperano delle frasi più caute, delle allegorie più discrete, si possono i Dei nominare, e la Commedia conservando il carattere istesso, prende un’aria meno scorretta, e meno agl’ignoranti pericolosa”, per rispettare anche la volontà del “serenissimo pio Governo, che niuna opera lascia correre sulle scene, che riveduta prima non sia, e da ogni scandalo e da ogni disonestà rigorosamente purgata”.

Il mito di Don Giovanni continua a fruttificare anche in pieno Romanticismo come dimostra il dramma Don Giovanni e Faust (1829) di (1801-1836), dove si tenta il confronto e in un certo senso la fusione dei due più grandi miti dell’era moderna: un Grande di Spagna che vive nella Roma corrotta del Tardo Rinascimento e dell’Inquisizione, che non crede nel sovrannaturale ed è legato solo alla realtà; un intellettuale borghese tedesco che vive chiuso nel suo palazzo di ghiaccio sul Monte Bianco e che ha fallito la sua ricerca dell’Assoluto.

Grabbe esalta il conflitto romantico tra anima e corpo di matrice cristiano-medioevale, mettendo a confronto l’aspirazione alla conoscenza universale (Faust) con l’aspirazione all’assoluto sessuale (Don Giovanni), per cui tutto il dramma è percorso da una sottile tematica teologica, visto che l’autore esalta il papismo come “mito positivo” contrapposto al luteranesimo inteso come “mito negativo” capace di distruggere il potere catartico dell’illusione rappresentato dalla Chiesa. In questo ambito è collocata la doppia storia della sconfitta di Don Giovanni, un animale laico tentato dalla peccaminosa suggestione della libertà sessuale e dall’altrettanto peccaminosa aspirazione all’arbitrio assoluto e alla piena libertà della conoscenza scientifica rappresentata da Faust.

Don Giovanni e Faust hanno come comune “oggetto del desiderio” Donna Anna: la differenza sta nel fatto che il primo è completamente immerso nella realtà dei sensi e quindi aspira a conquistare ogni donna compresa Donna Anna; il secondo è veramente innamorato ed è pronto per lei a rinunciare alla ricerca del sapere e ai vincoli della famiglia. A differenza del personaggio di Goethe, quello di Grabbe sa che l’aridità del sapere è pari “all’enorme silenzio di un deserto”, dove non ci sono risposte, una distesa dove è possibile soltanto scavare una fossa “per morire, disperati, nella sete della conoscenza”, sconfitta dall’abiezione dell’ignoranza. È la presenza “infernale” di Don Giovanni a spingere Faust a cercare il cielo attraverso le porte dell’inferno, assecondato da Mefistofele che incoraggia la sua volontà di sapere, ma nello stesso tempo schernisce la sua infantile pretesa di penetrare nel mistero dell’esistenza umana e di voler conoscere un Dio che, non solo resta sempre celato alla vista e alla contemplazione, ma si comporta come un burattinaio capace di manovrare le anime a suo piacimento.

Sempre in ambito romantico, nel 1830(1799-1837) scrive quattro “microdrammi” fra i quale c’è Il convitato di pietra, nel quale Don Giovanni compare come un poeta animato dalla forza generatrice dell’Eros che lo porta ad assumere un atteggiamento di ribellione nei confronti della società. Nel 1834 Blaze de Bury, sotto lo pseudonimo di Hans Werner, pubblica il dramma lirico Don Giovanni, dove il protagonista è avvolto nello splendore dell’apoteosi e vola, come un serafino, verso il Paradiso dove lo attende la sua salvatrice Donna Anna. Alessandro Dumas padre (1802-1870) nel 1836 scrive un dramma di impostazione moralistica intitolato Don Juan de Marana ou La chute d’un ange, nel quale un angelo ottiene dalla Vergine Maria l’autorizzazione a scendere sulla terra e ad incarnarsi nel corpo di Suor Marta per arrivare a convertire Don Giovanni. Egli si rifà alla leggenda di Don Giovanni di Marana che termina con la redenzione del grande peccatore. Dumas imbastisce una vicenda nel segno del terrore, piena di omicidi commessi da Don Giovanni che uccide un suo fratello, frutto di una relazione adulterina del padre ed elimina anche il confessore di questi, perché lo ha convinto a legittimare questo figlio naturale. Vi sono poi intrighi, avvelenamenti, seduzioni di monache fino alla redenzione finale grazie all’intercessione dell’unica donna che egli ha amato nel corso della sua vita. Nel 1838 Théophile Gautier (1811-1872) scrive La commedia della morte, dove viene tracciato il ritratto di un Don Giovanni disperato ormai preda di una indecorosa decadenza della vecchiaia, dopo essere stato il simbolo dell’eterna giovinezza e della suprema seduzione.

Nel 1844 José Zorrilla (1817-1893) pubblica Don Juan Tenorio, considerato uno dei capolavori del teatro spagnolo, dove è presentata la storia di un Don Giovanni grande seduttore grazie alle sue prodigiosi doti di affabulatore che gli consentono di ammaliare e incantare qualsiasi donna. Con il passare degli anni egli ha una maturazione spirituale, per cui viene liberato dalla sua condizione di condannato all’inferno da un Dio reso misericordioso dalla forza intermediatrice dell’Amore.

Nel 1851 esce postumo l’incompiuto poema teatrale Don Juan di Nikolas Lenau (1802-1850), dove il personaggio di Don Giovanni è completamente reinventato: il celebre libertino, ricchissimo e padre di numerosi figli, continua a cercare le sue vittime femminili, insegnando loro la vanità di ogni illusione amorosa, inseguendo un suo assurdo sogno di felicità. Ma quando crollano tutte le sue illusioni di potenza, in empito di pessimismo, Don Giovanni si sucida, anzi si lascia uccidere in un duello da Don Pedro de Ulloa, quasi abbia perduto insieme alla voglia di vivere, anche la capacità di sopprimersi. In questa storia non c’è posto per il pentimento, come non c’è posto per l’amore, perché Don Giovanni non riesce ad amare nessuna donna, essendo eternamente diviso fra i due grandi temi della sua vita: la ricerca della felicità attraverso la voluttà (“Vorrei percorrere in una tempesta di voluttà tutto il cerchio magico e infinito delle bellezze femminili armate di tante seduzioni diverse”); una tristezza di fondo e una suprema voluttà di morte che sono inutilmente mascherata dietro la sua filosofia del libertinaggio.

Malgrado gli sforzi fatti dagli autori romantici, la leggenda del grande seduttore tende a declinare, tanto che agli inizi del Novecento (1856-1950) rappresenta il mito di Don Giovanni usando l’arma del sarcasmo nella commedia Uomo e superuomo (1903), attraverso la quale l’autore porta sulla scena la sua teoria della forza vitale (derivata dalle dottrine di Bergson e Nietzsche), considerata come principio motore del mondo e spinta alla continuità della specie. L’opera è ambientata in epoca contemporanea, nel mondo della ricca borghesia intellettuale e delle professioni ed ha come protagonista John Tanner, libero pensatore e autore del Manuale del rivoluzionario, il quale è però destinato a rientrare nei ranghi di una vita “normale”, quando accetta di sposare Anna Whiterfield, donna dotata di intelligenza e di astuzia, una volta resosi conto che ormai nella società contemporanea non esiste più un “gentiluomo che osi scandalizzare il proprio droghiere e che le donne oltraggiate impugnano formidabili armi legali”. La commedia risulta alquanto appesantita dal voler dimostrare la tesi di fondo e da un certo scollegamento fra la trama principale e una specie di intermezzo, dove l’autore racconta la storia di un gruppo di amici che decide di fare un viaggio in Spagna, dove John Tanner viene catturato da alcuni banditi. Durante la prigionia, John sogna di essere precipitato all’inferno, dove incontra Don Giovanni Tenorio e Donna Anna e dove Lucifero in persona gli spiega che l’inferno è il luogo di coloro cercano la felicità attraverso le illusioni e i piaceri terreni, al contrario il paradiso è “il luogo dei padroni della realtà” attraverso i quali si manifesta la forza vitale, sono pertanto i “buoni” a scegliere l’inferno, mentre gli uomini superiori optano per il paradiso. A seguito di questa enunciazione, Don Giovanni decide di andare in Paradiso insieme a Donna Anna, perché ha compreso che la sua missione è quella di procreare il Superuomo.

Del personaggio del grande seduttore si occupa (1868-1918), il quale ha conquistato una grande popolarità con la sua “commedia eroica” Cyrano de Bergerac. Al termine della sua carriera letteraria, egli affronta il mito giovanneo nella piéce L’ultima notte di Don Giovanni (1916/17), pubblicata postuma nel 1922. Rostand mette in evidenza la crisi del grande seduttore a cominciare dall’ambientazione collocazione della storia, che si svolge in una Venezia notturna e malinconica, destinata ad accogliere quei “libertini che vogliono infrangere l’ultimo bicchiere, il più bello”. Al fianco di Don Giovanni non opera il Convitato di pietra, ma uno smaliziato diavolo esperto di psicanalisi che gli fa comparire dinanzi le mille e tre dame del celebre catalogo, le quali si presentano come ombre destinate a rendere Don Giovanni consapevole del proprio fallimento: tutte queste donne dichiarano infatti di non averlo mai amato e di aver mai sofferto per i suoi inganni, perché non si sono fatte sedurre, ma hanno piuttosto approfittato di lui per sedurlo. Di fronte a questo esplicito fallimento, l’autore non se la sente di condannare Don Giovanni alla morte e al fuoco eterno dell’inferno, ma escogita un tipo di pena ancora più spietata e umiliante. Egli trasforma Don Giovanni in un burattino condannato a interpretare la farsa di se stesso: il seduttore beffardo e irriducibile è obbligato a recitare per l’eternità la sua parte in un teatrino delle marionette per divertire un pubblico di innocenti bambini. È questo, per Rostand, l’unico modo per sottrarre il mito giovanneo a una miserevole fine.

(1862-1931), uno dei fondatori del movimento Jung Wien che segna l’avvio dell’impressionismo letterario austriaco, nel 1893 pubblica il suo primo lavoro teatrale Anatol. Si tratta di sette novelle “dialogizzate”, nelle quali l’autore si occupa con toni scherzosi della figura del gaudente e dissoluto collezionista di donne che, col passare degli anni, si accorge della sua decadenza sessuale. Si rende conto che i suoi incontri erotici (con ragazzotte di provincia o navigate prostitute) si stanno trasformando in messe in scena per rievocare un passato di conquistatore e di avventuriero attraverso sensazioni “virtuali” nel segno del feticismo e del sogno erotico. Schnitzler riprende il tema del seduttore nella commedia Le sorelle di Casanova a Spa (1919), dove l’incarnazione reale di Don Giovanni, essendo a 32 anni al culmine della potenza sessuale e intellettuale, vive con spirito giocoso le sue avventure, per cui le difficoltà derivanti dalla conquista di una donna, avvenuta nella convinzione che di averne sedotta un’altra, sono superate attraverso una dialettica scherzosa.

(1867-1936) non ha mai affrontato direttamente il mito di Don Giovanni, anche se nella sua produzione teatrale vi sono due quasi - Don Giovanni. Il primo è Cecè (1913), un giovane “simpaticissimo; occhi sfavillanti e labbra accese; naturalmente signorile, (che) veste con raffinata eleganza”, il quale deve il suo successo con le donne al fatto di essere soprattutto un “ingannatore” che vive di piccole truffe e di raggiri concepiti e realizzati in nome del dio Denaro. L’autore lo rappresenta positivamente per le sue capacità inventive, la fantasia, l’estrosità con cui imbroglia le donne e soprattutto quegli uomini (come il commendator Squattriglia), prendendosi gioco delle tradizioni e della rigida morale borghese. Il secondo è Liolà (1916), un simpatico contadino che si aggira per le campagne di Agrigento, dove ha sedotto molte donne e ha procreato tre figli che ha preso a vivere con sé. Liolà è una specie di forza della Natura che sa districarsi con l’astuzia in mezzo a complesse vicende sessuali con mariti sterili (Zio Simone), mogli infedeli (Mina) e nipotine intriganti e assetate di denaro (Tuzza). Liolà mette incinte entrambe queste donne e sventa la minaccia di Tuzza che vuole accoltellarlo, consolandola con la promessa che prenderà con sé anche il suo quarto figlio. Solo al termine della sua vita Pirandello decide di affrontare la figura di Don Giovanni, ma fa solo in tempo a scrivere il racconto L’uomo di tutte le donne, incluso nelle Novelle per un anno, in cui sono tuttavia tratteggiati con maestria tutti i caratteri del personaggio.

L’austriaco(1901-1938) scrive nel 1936 il dramma Don Giovanni ritorna dalla guerra ambientato nel 1918 in una città in decadenza, dove il grande seduttore cerca invano di ritrovare il suo passato, essendo incapace di identificarsi nella realtà che si riflette negli incontri che ha con il mondo femminile. Don Giovanni, ritornato alla vita civile dopo la fine della prima guerra mondiale, è talmente cambiato da non riconoscere nemmeno se stesso e dà in smanie per ritrovare un’antica fidanzata da lui abbandonata alcuni anni prima ed ora di nuovo desiderata, ma la donna è morta in manicomio dove era stata rinchiusa quando ha perduto la ragione a causa dell’abbandono da parte di Don Giovanni. Preso da un’ansia disperata, questi la cerca nei volti e nei corpi di tutte le donne che incontra (per la precisione 35) e che sono attrici di cabaret, prostitute, dame dell’aristocrazia, speculatrici alle prese con l’inflazione, vecchie e giovani impegnate in politica. Questa affannosa ricerca ha termine solo quando Don Giovanni scopre finalmente la verità e decide di lasciarsi morire sulla tomba dell’unica donna che ha veramente amato. L’opera, scritta mentre sull’Europa comincia a pesare lo spettro del nazismo, rappresenta una società avviata verso la catastrofe di un’altra guerra mondiale, una società che sta correndo con disperata allegria verso l’annientamento, mentre si consuma il mito di uno stanco seduttore costretto a ripetere fino alla noia gli stessi gesti e le stesse azioni di incallito amatore che è senza entusiasmo ed è in preda di una stanchezza spirituale. A questo inesorabile percorso verso la dissoluzione finale corrisponde la denuncia di una società in sfacelo, che non ha però le forti connotazioni politiche del teatro brechtiano, ma tende piuttosto verso un tardo romanticismo animato da una fredda disperazione.

Nel secondo dopoguerra (1898-1956) mette in scena a Berlino nel 1954 un Don Juan tratto da Molière e la stessa operazione compie Henry de Montherlant (1896-1972) con il Don Juan rappresentato nel 1958. Più originale risulta il dramma Don Giovanni, ovvero l’amore per la Geometria (1953) del commediografo svizzero Max Frisch (1911-1991), opera ambientata nel Rinascimento dove il mito viene analizzato attraverso la lente del dubbio e del sarcasmo: Don Giovanni non è più il grande seduttore, ma un personaggio freddo e razionale che vuole scardinare le tradizioni e che assume un atteggiamento critico nei confronti della società. È sempre amato e desiderato dalle donne, ma ha nei loro confronti un atteggiamento di fuga, perché si rifiuta di entrare nel mito e non accetta il ruolo che il destino vuole imporgli. Egli tuttavia non sa che tipo di rivoluzione deve compiere per sfuggire al “mostruoso spettacolo” della vita e, quando si rende conto che la sua rivolta non ha speranza di successo, decide di sublimare le sue passioni dedicandosi allo studio della Geometria. Secondo Frisch, la fama di seduttore di Don Giovanni “è un equivoco creato dalle donne”, poiché egli è un intellettuale e quello che “lo rende irresistibile per le signore di Siviglia è la sua spiritualità, la sua pretesa di una spiritualità virile, la quale costituisce un affronto, in quanto persegue scopi completamente diversi da quelli che potrebbero essere costituiti dalla donna e pone la donna come un episodio”.

Altre variazioni sul tema riguardano il rapporto del grande seduttore con le donne della sua famiglia: nella commedia La moglie di Don Giovanni (1944) dell’italiano Carlo Terron, si assiste a un Giovanni che è un piccolo borghese dei nostri tempi alquanto sciocco, in balia della moglie Valentina e delle altre donne che incontra; nella pièce Don Juan Ultimo (1992) dello spagnolo Vicente Molina Foix è la mamma del grande seduttore ad essere la protagonista, una matriarca che, con la sua oppressiva educazione, finisce per condizionare irrimediabilmente la vita del suo celebre figlio condannato a cercare nelle altre donne la figura materna.

(Alberto Pellegrino)