Il mito di Don Giovanni nel melodramma (2009)
Fonte-Web
di Alberto Pellegrino
Il mito di Don Giovanni nel mondo del melodramma dal 1669, con la prima opera di Alessandro Melani ((1639-1703), fino al "Don Giovanni o Il dissoluto assolto" (2005) di Azio Corghi.
Il mito di Don Giovanni fa il suo ingresso nel mondo del melodramma nel1669 con la prima opera in musica intitolata L’Empio punito, musicata da Alessandro Melani (1639-1703), compositore e maestro di cappella prima a Pistoia e successivamente a Roma in S. Maria Maggiore e S. Luigi dei Francesi. Nel libretto scritto da Filippo Acciauoli (1637-1700) la vicenda di Don Giovanni è riscritta secondo lo stile tipico del dramma per musica: è ambientata in Macedonia e in Grecia, in un ambiente idilliaco carrate rizzato da versi “molli” ma adatti alla musica.
Sempre nella seconda metà del Seicento, Henry Purcell (1659?-1695) compone l’opera The Libertine Destroyed, quando l’Inghilterra è in piena restaurazione puritana e una rigida morale considera la figura del libertino come un criminale colpevole di violare le norme sociali. Per questo la rappresentazione ruota intorno all’annientamento del peccatore e alla sua esemplare punizione con un coro dei diavoli che nel finale del terzo atto attendono l’arrivo della sua anima dannata.
A partire dal secondo Settecento sono molte le opere ispirate alla figura del grande seduttore: il primo è un “balletto d’azione” intitolato Dom Juan ou bien du ‘Festin depierre’ (1761) con il libretto scritto da Ranieri de’ Calzabigi (1714-1795) e le musiche composte da Christoph W. Gluck (1714-1787), andato in scena a Vienna ad opera del grande coreografo italiano Gaspero Angiolini (1731-1803). A proposito di quest’opera dice una testimonianza del tempo che si è trattato di uno spettacolo “nella sua tristezza lugubre, sconvolgente all’estremo”.
Seguono Il Convitato di Pietra, o sia il Dissoluto (1776), libretto di Nunziato Porta (?) con musiche di Vincenzo Righini (1756-1812); Il Convitato di pietra (1777) di Giuseppe Calegari (1750-?); Don Giovanni ossia il Dissoluto (1783) di Gioacchino Albertini (1748-1811), compositore operante nel Teatro di Varsavia; Il Convitato di pietra (1783), libretto di Giovanni Battista Lorenzi (1721-1807) tratto dal Convitato di Pietra del Perrucci con musiche di Giacomo Tritto (1753-1824), un’opera che contiene elementi tratti dalla tradizione napoletana come il duello al buio tra Don Giovanni e Pulcinella, la Tarantella eseguita da Pulcinella e dalla sua Sposa; Il Nuovo Convitato di pietra (1787) di un librettista anonimo con musiche di Francesco Gardi (1760?-1810?); Don Giovanni o sia il Convitato di pietra (1787) scritto da Giovanni Bertati (1735-1815) e musicato da Giuseppe Gazzaniga (1743-1818), un’opera in cui diversi studiosi hanno visto la fonte d’ispirazione di Lorenzo da Ponte per il suo Don Giovanni.
Sulla scia del successo che nel Settecento ha goduto il grande seduttore, arriva nel 1787 il capolavoro assoluto di Wolfgang Amadeus Mozart (1756-1791), quel Don Giovanni composto sullo straordinario libretto di Lorenzo Da Ponte (1749-1838). Il compositore salisburghese scrive un’opera geniale e rivoluzionaria, scabrosa e intrigante, ritenuta persino “pericolosa” dalla società del tempo, perché questo Don Giovanni non è soltanto l’ateista fulminato, il dissoluto punito, il profanatore di fanciulle virtuose, il tentatore della sacralità del matrimonio, ma è anche il libero pensatore, l’uomo nuovo annunciato dall’Illuminismo che non piega la fronte dinanzi all’autorità paterna, politica e religiosa. Sembra che a Praga, in occasione del debutto dell’opera, fra gli spettatori vi sia stato Giacomo Casanova (1725-1798), l’avventuriero collezionista di donne, giocatore e baro, ateo e servitore dell’Inquisizione, politico e agente segreto, scrittore e filosofo che per circa un secolo ha incarnato nella realtà il personaggio di Don Giovanni, una figura che con la sua complessa personalità ha probabilmente influenzato Da Ponte e Mozart che, prendendo come punto di riferimento sia il Don Giovanni di Molière, sia l’avventuriero veneziano, hanno creato “un uomo che non conosce viltate e sperpera il suo coraggio, la sua giovinezza, vuole solo soddisfare il suo prepotente, inestinguibile bisogno di amare, di amare”, superando le barriere delle caste, della nobiltà del sangue, della virtù e dell’onore tradizionali (Giovanni Macchia, Vita, avventure e morte di Don Giovanni).
Mentre Molière si allontana dalla religiosità medioevale a favore dello scetticismo illuministico del suo personaggio, la musica di Mozart e la scrittura di Da Ponte danno vita a un personaggio sanguigno, pieno di fuoco e di gioia di vivere, la cui forza tutta terrena si fonda su ciò che è reale, materiale, credibile e per questo non arretra e non cede di fronte al sovrannaturale, conservando la sua tragica grandezza. La geniale intuizione di Mozart consiste nell’aver posto il libertino impenitente sullo stesso piano del Commendatore (il Convitato di pietra della tradizione) in uno scontro senza pietà che ha come posta la vita stessa. Don Giovanni in questa lotta feroce esce sconfitto, ma con l’onore delle armi: assassino a causa delle circostanze, ingannatore e seduttore, egli non appare mai un personaggio odioso o ripugnante, ma diventa l’emblema della straordinaria creatività drammatica di un Mozart che sa conciliare il sorriso e il pianto, la gioia di vivere e il terrore della morte in un’opera dove il comico e il tragico sono fusi in perfetto e inimitabile equilibrio, determinando il definitivo superamento dell’opera buffa settecentesca.
“La grandezza del Don Giovanni sta proprio nella miracolosa coesistenza di comico e tragico. Lasciativi sfuggire la misura sovrumana del dramma, e non avete capito niente. Ma lasciatevi sfuggire la comicità della natura formale, e non avete capito niente lo stesso. Guai a privilegiare una delle due facce. La corsa di Don Giovanni comincia con lo stacco del Molto allegro nell’ouverture e finisce solo con l’apparizione del Commendatore al banchetto”(Massimo Mila, Lettura del Don Giovanni di Mozart).
Dello stesso parere è Guido Davico Bonino quando sostiene che “l’apparente limpidezza e fluidità del libretto dapontiano trovano riscontro in una partitura musicale a sua volta (apparentemente) lineare, in realtà di una complessa serigrafia espressiva, in cui si fondano in un amalgama perfetto, eppure ogni volta sorprendente, i registri più disparati, il giocoso e il patetico, il burlesco e il tragico” (Storie di Don Giovanni, p.10). A sua volta lo scrittore Gesualdo Bufalino sottolinea l’aspetto innovativo e rivoluzionario dell’opera, quando ricorda che nel 1787 la Rivoluzione francese sta già bussando “alle porte del futuro” e che non si può “negare il presagio di catastrofe che incombe dal principio alla fine sull’opera”, tanto che si può parlare di un “redde rationem, non d’un individuo, ma d’un secolo intero…Quando Don Giovanni sprofonda sottoterra, è un mondo intero che sprofonda con lui” (Dialogo d’un arcidiavolo e d’un arcangelo nel foyer di un teatro a una “prima” del “don Giovanni”, introduzione al Don Giovanni, Teatro Bellini di Catania, 1994).
Nell’Ottocento, probabilmente intimoriti dal capolavoro mozartiano, non sono molti i compositori che si confrontano con il mito giovanneo. Se si escludono alcune composizioni su temi mozartiani di Chopin (Variazioni su “Là ci darem la mano”, 1831), di Liszt (“Reminiscenze di Don Giovanni”, 1841) e di Mahler (Tirso de Molina Lieder, 1880/83), soltanto Giovanni Pacini (1796-1867) scrive nel 1832 una farsa in due atti intitolata Don Giovanni ossia il convitato di pietra, che segue il tradizionale canovaccio del Burlador de Sivilla con la differenza che Leporello diventa Ficcanaso e tutta l’opera è incentrata sull’importanza del cosmo femminile e sul rapporto generazionale tra padre e figlio. Bisogna arrivare al 1899 per trovare il poema sinfonico Don Juan di Richard Strauss (1864-1949), ispirato al dramma di Lenau liberamente riletto, perché questo Don Giovanni non è un antieroe ormai sulla via del tramonto, ma un personaggio animato da un’esaltazione febbrile che lo spinge alla conquista dell’Assoluto femminile.
Nel NovecentoIgor Stravinskij (1882-1971), certamente il maggiore operista del secolo, compone nel 1951 il melodramma La carriera del libertino, su libretto del poeta Wystan H. Auden (1907-1973), che si è ispirato alle celebri acqueforti (1732) di W. Hogarth. Si tratta di un’opera “neoclassica” per la presenza di arie, duetti, terzetti, quartetti, cavatine, cabalette e recitativi al clavicembalo, dove viene rappresentata la progressiva distruzione di un giovane (Tom), il quale si lascia trascinare nei vizi della società elegante, manipolato da un individuo diabolico (Shadow) che lo spinge alla conquista delle donne e lo stordisce tra i piaceri di una Londra postribolare. Tom si trova a vivere in un mondo dominato dal sesso, dove non esiste la bellezza, né la libertà e tanto meno l’amore (“Amore, questa preziosa parola è come un carbone ardente. Mi brucia le labbra e mi riempie l’anima di terrore”), dove conta soltanto la conquista, il disprezzo dei sentimenti, l’esaltazione del denaro. Quando Tom-Don Giovanni tenta di riscattarsi dalle sue colpe e di ribellarsi a questa vita inutile e vuota, costruisce una macchina che trasforma le pietre in pane, ma questo progetto lo porta al fallimento finanziario e alla rovina sociale. A questo punto Scadow- Mefistofele aggiunge beffa alla beffa e gli offre la possibilità di rifarsi con il gioco delle carte in cambio dell’anima ma, dopo aver vinto, il libertino perde la ragione e il manicomio, dove viene internato, diventa il suo inferno sulla terra. Trasformato in un martire, Tom muore fra le braccia di Anna, l’unica donna che l’ha sempre amato e che ha cercato di salvarlo. Nel finale i personaggi vengono alla ribalta e invitano il pubblica a trarre la morale da questa rappresentazione: “Sempre, sotto la luna e sotto il sole, da quando Eva partì con Adamo, il diavolo trova lavoro da fare, lavoro, egregio signore, per voi, lavoro, gentile signora, per lei”.
Ultima in ordine di tempo è arrivata l’opera Don Giovanni o Il dissoluto assolto (2005) di Azio Corghi (1937), autore di diverse composizioni strumentali, per orchestra e di alcune opere liriche come Blumunda, Divara, La morte di Lazzaro, tutte composte su testi dello scrittore José Saramago, Premio Nobel per la Letteratura 1998. Corghi fa ancora una volta ricorso a un libretto di Saramago, riuscendo a fondere la tradizione operistica con forme musicali del tutto nuove. Saramago, dopo essersi confrontato con tutte le precedenti opere sul grande seduttore, ha “cominciato con l’argomentare che sulle male arti di Don Giovanni si era detto tutto, che non valeva la pena di ripetere ciò che gli altri avevano fatto meglio” e ha scritto un vero e proprio testo teatrale dove ha voluto rappresentare un “Don Giovanni (che) non poteva essere tanto cattivo come nel tempo lo avevano dipinto…né Donna Anna e Donna Elvira delle creature tanto innocenti, per non parlare del Commendatore, puro ritratto di un onore sociale offeso, né di un Don Ottavio che a stento riesce a dissimulare la vigliaccheria”. L’autore parte dal Don Giovanni mozartiano che, rifiutando di pentirsi, afferma un’etica della dignità e della responsabilità, ma affronta anche il tema della crudeltà e dell’immoralità di quanti circondano Don Giovanni: la malvagità di Donna Elvira, che ruba all’uomo il catalogo con la lista delle sue amanti; la perfidia di Donna Anna che accusa il celebre libertino di essere sessualmente impotente; l’ostinazione del Commendatore che lo esorta al pentimento. Di fronte a questo misero spettacolo, Don Giovanni mantiene la calma e sceglie la candida e onesta Zerlina che rappresenta la soluzione salvifica dell’amore, perché è l’unica persona capace di farlo uscire dallo stato di solitudine e di abbandono in cui è caduto. È infatti la ragazza a far emergere la semplice natura umana del grande seduttore ed a mandare in frantumi la statua del Commendatore, liberandolo dall’ombra ingombrante del padre e dalle sue ossessioni sessuali. Di fronte all’amore di Zerlina, “Don Giovanni” diventa finalmente “Giovanni”, l’uomo a cui la ragazza rivolge queste parole conclusive: “Non sono venuta per ridere di te. Sono venuta perché eri stato umiliato, son venuta perché eri solo, son venuta perché Don Giovanni era divenuto all’improvviso un pover’uomo cui era stata rubata la vita e nel cui cuore altro non sarebbe rimasto se non l’amarezza di aver avuto e non avere più…È tempo che io ti conosca e tu conosca me…Non amo Masetto, io amo te”.
A consolare il mancato sposo di Zerlina rimane Leporello, il quale convince il giovane che è inutile cercare di tenere accanto a sé una donna quando essa ha deciso di fare una determinata cosa; così come è inutile cercare di vendicarsi di lei: “Non ne vale la pena, Masetto, non perdere il tuo tempo. Dio e il Diavolo son sempre d’accordo nel volere ciò che la donna vuole”.
(Alberto Pellegrino)